A Matteo Garrone, regista finissimo, non doveva riuscire difficile eclissarsi per due anni, e nel frattempo lavorare a un film. Lui non è un tipo che ama la ribalta, e i suoi stessi film (quasi sempre premiati da pubblico e critica) fanno parlare di sé, pur restando abbastanza di nicchia.
Stavolta era diverso: Gomorra, la pellicola che Garrone ha tratto dal best-seller di Roberto Saviano, non era certo un film di nicchia, o di cui nessuno conosceva gli ingredienti. Eppure c’è riuscito anche stavolta a blindare il set. A non far trapelare nulla, né del contenuto, né del racconto. Ed evidentemente per rispetto, nessuno è stato lì a cercare lo scoop a tutti i costi come magari accade quando a blindare il set è quell’antipatico (con affetto) di Nanni Moretti. “Tre storie brevi”, il titolo provvisorio che il film aveva durante la lavorazione indica invece la scelta narrativa operata dal regista. Il libro di Saviano è infatti un testo in cui esistono centinaia di storie che in una trasposizione si possono scegliere. Impossibile portare sullo schermo il libro tout-court. Gomorra è infatti basato su cinque (non tre) di queste storie, cinque personaggi chiave descritti da Saviano, ripresi e incollati con la magia del linguaggio cinematografico da Matteo Garrone. Garrone, con cui alla sceneggiatura hanno lavorato Chiti, Gaudioso, Bracci e lo stesso Saviano, ha scelto di girare il film nelle sue ambientazioni reali, nel napoletano: location da Secondigliano a Scampìa, a Caserta, per raccontare come si manifesta il fenomeno dello spaccio di droga “alla luce del sole”; come si passa da anni di tregua tra clan a nuove tensioni; come due amichetti siano costretti a separarsi perché cooptati dalla mafia in primis, e da affiliazioni diverse poi.
Non lo scopre Garrone che la mafia è cambiata anche nei suoi aspetti esteriori, ormai è abbastanza noto anche a chi segue le più umili cronache dei giornali, di certo però le immagini di Garrone sono le prime con cui anche il cinema italiano mostra al pubblico queste nuove facce fatte di gel, abiti firmati, volti lampadari e muscolature un tempo coperte dalle mangiate pantagrueliche cui ci hanno abituato i racconti di Coppola e Scorsese. C’era una volta il barbiere, pensateci: figura presente in qualsiasi film di mafia. In Gomorra c’è il solarium. Toni Servillo: qualsiasi parola ne indebolirebbe la figura, di lui che ormai può girare a testa alta tra i campioni del grande schermo.
Appuntamento a Cannes, dove Servillo arriverà anche nei panni di Giulio Andreotti ne “Il Divo” di Paolo Sorrentino. E qualcuno parla già di Oscar. |